Ancora malati di 'ndrangheta

manifestazionevittimemafie500di Ariella Lea Heemanti - Siamo qui. Come oramai un secolo fa, quando in Sicilia s'inalberavano cartelli con sopra scritto "Viva Liggio" o come quando, in tempi più recenti, fino ai nostri giorni, si prova a mettere in testa al cronista che "la mafia dà lavoro e lo Stato no" e che, se proprio si vuole, il guaio è questo. Figurarsi se le banche possono concedere enormi prestiti a chiunque come a quel secco viveur di Castelvetrano, il "grande zio"cui il malato di mafia di turno manda gli auguri di buon anno tramite facebook, non si quanto da lontano o da vicino, con tanto di consueto insulto agli sbirri, agli infami, e stappatura di bottiglie di champagne che neanche Sendero Luminoso, a suo tempo, in Perù, col suo capo, il marxista camarada Gonzalo, professore di filosofia, altro sincero amante dei lavoratori, trucidatore, alla stregua di ogni mafioso, di contadini e di sindacalisti che di sottostare al suo potere non ne volevano sapere.

Siamo qui. Come quando il direttore della filiale di una banca, a Reggio Calabria, in occasione di un prestito milionario da concedere a Paolo De Stefano, scrisse in una nota per il nulla osta che si trattava "di persona molto nota e stimata in città", mentre toccò poi al parroco di Archi, quando il mammasantissima venne fatto assassinare dal suo figlioccio e allievo di crimine, tuonare dal pulpito, durante i funerali, dire che il boss era un galantuomo, cosa confermata di questi tempi dal figlio Giuseppe, che rammenta di come tutti i ragazzi De Stefano fossero costretti ad andare con le scarpe bucate, ahinoi, perché la folla dei sudditi di 'ndrangheta accorreva da Cammera a comprare scarpe di qualità a nome del sovrano benefattore, e il conto, ovviamente, veniva fuori salatissimo.

Siamo qui, con Pif che commenta le scritte contro don Ciotti e contro gli sbirri sui muri della città di Locri, e precisa che per combattere questo inquietante malcostume bisogna andare nelle scuole, educare, insegnare, che non servono solo poliziotti e carabinieri; come se poliziotti e carabinieri non facessero il loro lavoro e si sognassero di volersi sostituire alle altre istituzioni. Come se il lavoro degli sbirri, dei poliziotti che portano addosso, nel loro stesso corpo il significato della parola politeia, dopotutto, nelle terre occupate dalla 'ndrangheta, non fosse anche quello di educare, di partecipare, di esserci, pure nelle scuole, di raccontare di sé, di come ci si alzi al mattino presto o non si vada mai a dormire e si guardi nel pensiero il volto dell'amata, dei figli, con l'apprensione, la paura persino e il sorriso di Antonio Montinaro, quella promessa di libertà e di moralità pronunciata per amore e per giustizia, quella fedeltà al proprio magistrato il quale era ed è, in questo Paese, lo Stato vero, reale, con le sue leggi e la sua umanità, non quello fantomatico, assente, o quello ignavo, troppe volte complice cui i mafiosi fanno finta di ascrivere, con la falsità e l'inganno che sono loro propri, la mancanza di lavoro e la presenza degli sbirri.

Siamo qui, con coloro che hanno ancora una volta provato a dare una interpretazione sociologica, e con questo una sorta di giustificazione, delle scritte dei malati di 'ndrangheta, con l'esteta Vittorio Sgarbi che a Linea notte ha addirittura invitato ad andare a pescarlo tra gli extracomunitari, l'autore, al quale magari hanno dato cinquanta euro per far apparire sui muri, di notte, la protesta e il fastidio del suo caporale, che almeno gli dà lavoro; al contrario si sa, si capisce che sono gli sbirri a toglierlo, il lavoro, mentre il procuratore Nicola Gratteri ha dovuto ribadire il fatto che a sciorinare i grani del solito rosario di mafia della mancanza di lavoro come causa di tutti i mali della Calabria non sia propriamente la 'ndrangheta, ma gente che "odia le istituzioni". Ovvero i malati di 'ndrangheta, come quelli descritti dal direttore di questa testata, Claudio Cordova, in articolo del 2011, intitolato proprio così, " Malati di 'ndrangheta". Gente che non essendo impiegata a tempo pieno nelle 'ndrine gira spavalda, con oro massiccio a collo e braccia, magari, sgommando e atteggiandosi ai propri modelli di prepotenza e naturalmente dimostrando dispregio verso la parola sbirro e chi, in quel momento, la impersona ai suoi occhi. O invece gente normale, dabbene finanche, immaginate un ex poliziotto che non riesce a sottrarsi al senso del riconoscimento del carisma 'ndranghetista e si presenta al funerale dell'anziano capomafia del suo quartiere, se non altro per accompagnare alla funzione religiosa il proprio vecchio genitore, sostiene, e va da sé che in quel contesto di omaggio e familiarità, di vicinanza, lo sbirro, l'ex sbirro è ben accetto. O ancora l'ex onorevole della Bovesìa che a un convegno sparla di magistrati e forze dell'ordine finché il cronista reggino non è costretto a prenderlo per quello che è glielo dice: "un simpatizzante della 'ndrangheta". Oppure come il boss Vincenzo Pesce, che in un'intervista di questi giorni a Klaus Davi ci propina la sua pseudo- lezione sociologica su come tutti noi siamo sulle strade sbagliate e su come invece far sparire la 'ndrangheta dalla faccia della terra, non solo da Rosarno, creando lavoro per chi, altrimenti, non sa dove andarlo a trovare, invece di licenziare al porto quattrocento padri di famiglia e poi di venire qua a parlare solo di mafia, 'ndrangheta e questo e quello. Già: il boss Pesce e il diritto al lavoro, giacché, se a esprimere un protervo malcontento per la mancanza di lavoro e la presenza degli sbirri sul territorio sono i malati di 'ndrangheta, non propriamente 'ndranghetisti, non è che a essere davvero 'ndranghetisti non si possa, nel contempo, essere malati di 'ndrangheta, della propria mortifera ideologia che è la radicale, sola vera rovina di una terra da loro stuprata con ogni mezzo, in ogni modo, compreso quello del lavoro su cui ogni volta, ad ogni occasione, essi hanno allungato le mani, le loro mani cariche di intimidazione, delitto, rituale di morte.

Siamo qui. Il procuratore Federico Cafiero de Raho ha dovuto replicare, a quelli delle scritte, che veramente è la 'ndrangheta a disintegrare a furia di bombe e di minacce ogni possibilità di lavoro e di esistenza in questa terra. E il 21 marzo a Locri egli sorrideva come un bambino serio ad una festa di palloncini, quasi timido, stupito ed emozionato, colto all'improvviso dalla gioia per quelle venticinquemila persone tra cui sentire i canti degli studenti, quel we are not afraid dei nostri giorni, in italiano, noi paura non ne abbiamo, scandito con i visi al vento, al sole, alla felicità e alla conoscenza del perché gridare: «Noi siamo sbirri», tutti insieme, contro la 'ndrangheta e i malati di 'ndrangheta.

Siamo qui, con il cronista Rai che chiede alla ragazza di Roccella jonica da dove venga e se è felice, orgogliosa di questo, e la ragazza ride e dice di sì, e sembra che sia passato un secolo da quando un altro cronista Rai raggiunse a S. Luca del Bianco la casa del capobastone Giuseppe Nirta, per registrare, prono, le dichiarazioni di costui, al solito ingannevoli e false, contrarie ai sequestri di persona, con la moglie del capocosca avviluppata di nero che esortava: «Trasìti, trasìti, pigghiativi u cafè», e le chiccare del caffè, le telecamere prone, la concione leziosa sull'onore della 'ndrangheta, la sua contrarietà ai sequestri di persona, mentre i sequestrati erano là, a due passi o forse sotto la stessa cucina con le piastrelle e gli stipetti all'americana di quella casa di 'ndrangheta di proprietà del mafioso che tanto tempo prima ancora, a un Piero Marrazzo per niente prono, per nulla incline a credere e riprendere la vulgata di una 'ndrangheta d'onore, aveva urlato dalle sbarre, con il furore e tutto il fiato della sua licenza di dominio sulla vita e sulla parola altrui: «Quale mafia, quale mafia, egregio dottor Marrazzo, la mafia sono loro». Già, loro, gli sbirri, lo Stato. Noi.

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E ora lo si dovrebbe chiedere agli autori di quelle scritte, già oggi, domani al massimo, se è per mancanza di lavoro che si può fare i carcerieri inumani di un giovane uomo, di un essere umano; che lo si può tenere, come Carlo Celadon, in una fossa umida, bagnata, senza neanche fogliame, incatenato alla pietra più fredda, alla solitudine più atroce; se lo si può affamare, torturare, rendere scheletro senza più neanche ossa, saliva, con il solo respiro di una resistenza che fu l'opposto del comportamento di quei carcerieri, di quei sequestratori, dei loro leziosi e malefici uomini di panza accomodati nella cucina all'americana di casa, di coloro cui il presidente Sergio Mattarella ha rivolto, nella piazza dei Martiri, a Locri, le parole giuste, consone alla loro mancanza di onore, di coraggio, di pietà. Bisognerebbe chiederlo, ai malati di 'ndrangheta, se non era lavoro che poteva portare e creare il padre di quel ragazzo imprigionato in un anfratto crudele, il quale vedeva la Calabria come una Florida del sud e ne era innamorato, e se furono gli sbirri a dissuaderlo da tutto ciò.

Siamo qui, con le parole giuste del capo dello Stato, di un uomo che invece conosce nell'intimo il coraggio, la pietà di prendere tra le braccia il corpo del proprio fratello assassinato dagli uomini dell'aggressiva codardia di gruppo denominata Cosa nostra, di ricomporne lo sguardo, le membra, di portarne con dolore e riserbo la memoria fino a quella piazza dei Martiri su cui affaccia, dicono, la casa del boss locale agli arresti domiciliari, casa dalle imposte chiuse o socchiuse, dove attendere"ca passa la china", perché, dice Pif, la 'ndrangheta non provoca, non è lei a scrivere basta sbirri, semmai i malati di 'ndrangheta lo scrivono loro per rabbia e per fastidio, ma che coincidenza che proprio or ora, vicino a Locri, i carabinieri abbiano portato fuori dal bunker anch'esso rivestito con le mattonelle di ceramica variopinta uno dei più pericolosi latitanti di 'ndrangheta, Santo Vottari, il cui figlio ha lanciato le pietre contro le telecamere ed i cronisti perché, signor Pif, non è neanche vero questo, che la 'ndrangheta non provochi, che non mostri la sua faccia: ilare, sfrontata e temeraria quella del padre condotto via; rabbiosa, chiusa e minacciosa quella del figlio. La faccia che resta, intenta, in tutta la sua mancanza di forza veritiera, a colpire, con le pietre, con il linguaggio, a pretendere di allontanare così, e con le scritte, la testimonianza, il lavoro di chi oggi è consapevole che siamo tutti sbirri, in questo, nel respingere la malattia di 'ndrangheta, l'omertà, la schiavitù, la fine della memoria, la rassegnazione.

Siamo qui. Con la ragazza che cammina con la scritta "Io sono Cocò", a ricordare che non è vero che la mafia o la 'ndrangheta non uccidano donne e bambini, e che se mai questo fosse stato vero, mai, quale differenza uno 'ndranghetista può preservare, rivendicare, annientando il cuore di un uomo, di ogni uomo che ha saputo, voluto dire di no al suo imperio criminale, di un uomo come il brigadiere Antonio Marino, che, ci ricorda la medaglia d'oro al valore civile in sua memoria, era uno "splendido esempio di elette virtù civiche e di altissimo senso del dovere"? Di un uomo, di tutti gli uomini come Antonio Montinaro, come il suo giudice, il nostro giudice, i nostri giudici, di cui ci rimane il sorriso, l'onore, l'amore e il prezzo per il quale, l'hanno detto i ragazzi e le ragazze delle scuole ai malati di 'ndrangheta e agli 'ndranghetisti, oggi siamo tutti sbirri. Persino, forse, quello 'ndranghetista che in carcere, dopo dieci anni, scrisse una lettera a Deborah Cartisano, la figlia del fotografo Lollo, per raccontarle dove fosse stato sotterrato senza pietas suo padre, di come egli provi ora una morsa nell'anima e il pentimento, per farci vedere che è anche così, con l'ombra della propria pietà e del proprio rimorso che risale da una coscienza non del tutto precipitata nello sheòl, negli inferi, che questa terra si può aiutare, non con l'idolatria del lavoro, con la sua scusa continua e misera protesa a coprire e a non sanare la malattia di 'ndrangheta, l'incubo oscuro eppure evidente, che prima o poi, con certezza, divorerà del tutto i suoi mostri, così che nell'aere rimanga solo l'azzurro, e i colori, l'emozione quasi infantile di un magistrato, il suo stupore, e i canti dei giovani, i salti, le scie, lievi e forti, di due ragazzi in bicicletta che il 21 marzo, a Locri, erano, saranno anche loro, per sempre, sbirri, come l'agente Roberto Antiochia che non voleva lasciare solo neanche d'estate, neanche ad agosto, il suo capo, Ninni Cassarà, e che gli fece da scudo sotto quei duecento colpi di kalashnikov sparati dagli sgherri senza coraggio e senza onore della mafia, morendo con lui, e rimanendo nel sorriso indimenticabile di sua madre, di una lezione vivida che si tramanda e si moltiplica, con il passare degli anni, mentre le scritte di chi è ancora malato di 'ndrangheta svaniscono sotto la vernice, in una mattina colma, semplice, di parole non vane.