Jan Kuciak, cronaca di un omicidio

kuciakjandi Carlo Bonini, Cecilia Anesi, Giulio Rubino, Lorenzo Bagnoli, Luca Rinaldi (IRPI) - Il 21 febbraio di un anno fa, il giovanissimo reporter slovacco Jan Kuciak veniva assassinato insieme alla sua fidanzata Martina Kusnirova. Per questo duplice omicidio, la magistratura slovacca ha arrestato tre uomini e una donna, attualmente detenuti con l'accusa di essere stati gli esecutori materiali. "Repubblica", insieme ai giornalisti di OCCRP, INVESTIGACE, Investigative Center of Jan Kuciak e a quelli del centro di giornalismo investigativo IRPI, che con Kuciak avevano lavorato fino al suo ultimo giorno di vita a un'inchiesta sulle infiltrazioni della 'ndrangheta in Slovacchia, ha continuato a indagare su questa storia e quello che leggete oggi ne è il risultato. A cominciare dalla ricostruzione, attraverso documenti giudiziari e testimonianze sin qui inediti, di come Jan e Martina morirono, di cosa accadde nei giorni e nelle ore precedenti la loro fine. Di quali domande, in questa storia, restino ancora senza una risposta.

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Era la sera di un mercoledì. Il 21 febbraio 2018. L'uomo che si avvicinò al civico 558 di via Brezova, una piccola casa di Velka Maca, paese a nord-est di Bratislava di poche migliaia di anime, stringeva in una mano una pistola Luger 9 millimetri con silenziatore. La porta di ingresso era aperta. Entrò e scivolò silenziosamente fino alla cucina. E fu solo allora che Martina Kusnirova lo vide. Si alzò di scatto dalla sedia su cui era assorta. Il colpo silenziato la centrò in volto, esattamente al centro degli occhi.

Al piano di sotto della casa, in cantina, Jan Kuciak udì un tonfo sordo. Risalì di corsa le scale. Fino a rimontarne gli ultimi gradini. Il petto urtò la canna della Luger. E un colpo a a bruciapelo lo raggiunse al cuore. Il corpo di Jan precipitò indietro sulle scale. L'assassino si richiuse la porta di casa alle spalle, costeggiò un viale coperto dall'ombra dei pini e quindi raggiunse un campo da calcio. Afferrò il cellulare. Lasciò che il numero chiamato squillasse una sola volta. Il segnale. Quattro minuti dopo, una Citroen Berlingo gli si accostò. Salì sulla macchina che partì in direzione di Komarno.

In casa di Jan e Martina il telefonò cominciò a squillare. E avrebbe continuato a farlo per ore. A vuoto.

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La pianificazione dell'omicidio aveva richiesto due settimane.

Lunedì 5 febbraio 2018, Tomas Szabo – l'assassino - aveva fatto il suo primo sopralluogo a Velka Maca con l'uomo "messo sotto contratto" con lui per fare "il lavoro". Quello che gli avrebbe fatto da autista, Miroslav Marcek.

Avevano verificato che la cosa sarebbe stata più facile del previsto. L'abitazione di Jan era in ristrutturazione e dunque di facile accesso. Per non dire della sua posizione. In una strada in fondo al Paese, fuori dal raggio di controllo dei sistemi di videosorveglianza stradali. E per giunta non lontana da un bosco, che in ogni caso sarebbe stata un'eccellente via di fuga se le cose, per un qualche motivo, si fossero messe storte.

Szabo e Marcek erano quindi tornati a Velka il 7 febbraio. Per due volte. Cambiando auto. E ancora la domenica 11. Quando, al tramonto, si erano avvicinati al civico 558 di via Brezova con una Peugeot 206. Avevano verificato il posizionamento delle telecamere del sistema di videosorveglianza e individuato accanto al campo da calcio il luogo più adatto per parcheggiare un auto. Quattro giorni dopo, la sera di venerdì 15 febbraio, era stata la volta delle prove del percorso a piedi. Szabo e Marcek avevano calcolato distanze e tempi tra il campo da calcio e la casa di Jan. Intorno alle 19, le 19.34 per l'esattezza, li aveva recuperati in auto Zoltan Andrusko, l'uomo che li aveva contattati per affidargli il lavoro.

Sabato 16 febbraio, intorno alle 19, l'auto con Szabo e Marcek è di nuovo in via Brezova. Scende il solo Szabo per controllare il perimetro della casa e verificare a che ora rientri Jan. Lunedì 19, infine, la prova generale. Sono le 19, e Szabo costeggia il campo da calcio per poi raggiungere a piedi la casa. Tre minuti. Percorsi con calma. Verificando tutte le possibili via di fuga. Venti minuti dopo, lo squillo telefonico singolo. E, di nuovo al campo da calcio, la Citroen Berlingo che arriva a prelevarlo.

Il mercoledì 21 febbraio, le cose sarebbero andate come dovevano. Dalle 18.30, Tomas Szabo sarebbe rimasto nascosto sul retro della casa al 558 di via Brezova. Alle 20.21, ne avrebbe varcato l'ingresso. Uscendone dopo due minuti, dopo aver giustiziato a sangue freddo Martina e Jan. Alle 20.25, Szabo sarebbe stato quindi raccolto da Marcek con la Citroen Berlingo nei pressi del campo da calcio. Alle 22.00, i due avrebbero raggiunto Komarno e qui avrebbero incontrato Zoltan Andrusko per comunicargli che il lavoro era stato fatto. Con un solo imprevisto. I morti erano stati due. Jan, il condannato a morte, e una ragazza che non doveva essere lì e che non avevano potuto lasciar viva.

* * *

C'era una ragione per cui per quel lavoro era stato scelto Tomas Szabo. Era infallibile. Non conosceva margine di errore. Aveva un passato in polizia e da alcuni anni lavorava come contractor privato a bordo di navi cargo. Un mestiere pericoloso, per il quale erano richieste capacità di autocontrollo e un buon uso delle armi. Szabo aveva entrambi. E anche per Jan aveva avuto cura dei dettagli. Per dire: aveva preparato ognuno dei proiettili con cui riempire il caricatore della sua Luger svuotandoli della metà della polvere da sparo. In quel modo, sapeva che i proiettili non avrebbero superato la velocità del suono. Dunque, non avrebbero fatto rumore. Né aveva dubbi sul fatto che potendosi avvicinare a pochi passi dalla vittima, i colpi, pure depotenziati, avrebbero raggiunto il bersaglio.

Anche Miroslav Marček era un tipo di cui potersi fidare. Oltre ad essere il cugino di Szabo, era un ex militare e anche lui contractor per la sicurezza a bordo delle navi cargo. E questo spiega perché Zoltan Andrusko non aveva avuto dubbi, alla fine. Aveva chiuso con Szabo a 40 mila euro. Diecimila invece sarebbe rimasti a lui per il disturbo. Non era lui infatti interessato a eliminare quel Jan Kuciak. Ne aveva ignorato l'esistenza fino al giorno in cui non gliene avevano fatto il nome. A 50 anni, quanti ne aveva, aveva solo bisogno di grano. Subito. Faceva l'imprenditore a Kormano, era carico di debiti, e fare da committente nella ricerca di due killer di professione era stata una di quelle offerte che non poteva rifiutare. Anche perché alla donna che lo aveva avvicinato parlandogli di Kuciak e del lavoro da fare doveva 20 mila euro. Si chiamava Alena Zsuzsovà. Gliene aveva offerti 50 mila e la cancellazione del debito purché eliminassero quel ficcanaso del giornalista ragazzino. Lui, Zoltan, aveva accettato sull'unghia.

Era successo tra la fine del 2017 e l'inizio del 2018, in una data non precisata nelle carte della magistratura slovacca. La donna, una quarantaquattrenne originaria anche lei di Komarno, aveva consegnato a Zoltan le istruzioni all'interno della sua auto. Gli aveva mostrato in quella occasione, su un pc portatile, un video che aveva salvato su una chiavetta usb. Delle immagini di Jan su un attraversamento pedonale. Gli aveva mostrato anche delle foto del ragazzo e indicato il suo indirizzo. Le foto erano state quindi caricate sul cellulare di Andrusko perché potesse consegnarle a chi avrebbe materialmente fatto il lavoro.

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Per quale diavolo di motivo Alena Zsuzsová ce l'aveva con Jan Kuciak, che di lei mai si era occupato? O, meglio, per conto di chi la Zsuzsova si era messa alla ricerca di killer su commissione?

Dalle carte degli inquirenti slovacchi, allo stato, non emergono risposte univoche. Ma, a quanto lascia intendere lo stesso Andrusko durante gli interrogatori dopo il suo arresto, la Zsuzsová sarebbe entrata in gioco perché conosciuta in Slovacchia come "contractor" per omicidi su commissione. Titolare, insomma, di una sorta di Agenzia della Morte. E' un fatto che, quando a settembre del 2018, dopo che la polizia slovacca ha ottenuto la confessione di Andrusko e riscontri positivi dall'esame delle immagini delle telecamere di sorveglianza di Velka Maca e si procede con gli arresti della Zsuzsová e dei due killer (Szabo e il cugino), della donna si sappia poco o nulla. Che parli italiano, ad esempio. E che fosse stata nel consiglio d'amministrazione di alcune aziende di mobili aperte da veneti emigrati in Slovacchia anni prima.

E' un fatto anche che, nel gennaio scorso, la Procura di Banská Bystrica, l'ufficio titolare dell'inchiesta sull'esecuzione di Jan e Martina, leghi il nome di Zsuzsová ad almeno altri tre omicidi irrisolti, avvenuti nei primi anni Duemila. Tra questi, quello di un trentenne friulano, Davide Casellato, ucciso in Slovacchia con un colpo di pistola in pieno giorno, oltre quindici anni fa. L'assassino sarebbe una donna, mai identificata. Un omicidio per il quale, allora, aveva proceduto la squadra mobile della nostra Questura di Udine, fino a quando non era stata rimbalzata dal muro di gomma alzato a Bratislava.

Dicono ora fonti della Procura di Bratislava che anche il caso di Casellato sarebbe stato riaperto. Mentre nulla dicono o intendono dire della zona grigia in cui l'omicidio di Jan Kuciak matura e viene commissionato. E in cui, a ben vedere, la Zsuzsova porta dritti, dritti. Accade infatti che della donna non esista una sola foto ufficiale e che la sola immagine sia quella scattata dalla polizia durante il suo arresto mentre, in manette viene trascinata fuori di casa. Una donna china sotto una cascata di capelli neri. A quanto sembra, una parrucca.

Eppure, sul suo profilo Facebook e su altri da lei aperti con degli alias, la Zsuzsova pubblicava foto da stropicciarsi gli occhi. Immagini a metà tra una top-model e una escort. Peccato non fossero le sue. Rubate, a quanto pare, perché utili ad agganciare uomini dell'elite del Paese: politici, imprenditori, avvocati, vip.

Non finisce qui.

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Con l'acronimo "SIS Alino" (SIS è la sigla che indica i servizi segreti slovacchi) il numero di telefono della Zsuzsova era salvato su una rubrica speciale: quella dell'imprenditore Marian Kocner. Un'amicizia quella tra i due a primo acchito incomprensibile. Cosa avevano in comune infatti la misteriosa Alena Zsuzsová e l'uomo d'affari Kocner? Stando a quanto documenta l'ordinanza di custodia cautelare slovacca, sicuramente una frequenza bancaria visti i bonifici che con cadenza mensile Kocner le inviava: 2000 euro, 1400 euro.

Le testimonianze raccolte durante il lavoro di inchiesta giornalistica sono concordi nell'indicare che la Zsuzsova venisse utilizzata da Kocner per ricattare sessualmente uomini politici e imprenditori rivali. Mentre un testimone di peso dell'inchiesta della magistratura slovacca, l'agente dei servizi segreti Peter Tóth, giura che i due fossero amanti.

Tóth decide di collaborare con la magistratura slovacca quando Alena Zsuzsová viene arrestata. Spiega di essere stato lui ad aver presentato la donna all'imprenditore Marian Kocner. E racconta che il materiale fotografico su Jan Kuciak, quello che Alena avrebbe poi consegnato ai killer, lo avrebbe raccolto lui personalmente in un'attività di pedinamento del giovane cronista condotta insieme ad un altro ex agente dei servizi. E che a pagarli per il disturbo fu proprio Marian Kocner, per il quale, già in passato, avevano sorvegliato altri "bersagli".

Marian Kocner, dunque.

E' uno dei principali e più controversi uomini d'affari del Paese, e viene definito senza mezzi termini da Peter Bardy, direttore di Aktuality, il giornale per cui lavorava Kuciak, "un mafioso".

E' coinvolto in una serie di scandali – tra questi, l'acquisizione della tv Markíza nel 1998 e la cosiddetta frode Technopol, su cui Kuciak aveva lavorato documentando la misteriosa scomparsa di centinaia di pagine di atti giudiziari – tiene sotto scacco diversi uomini delle istituzioni, compreso il Procuratore generale Dobroslav Trnka, e, nella sua cassaforte conserva copia delle intercettazioni e dei dossier illegali del cosiddetto "caso Gorilla", scandalo che travolse i servizi segreti slovacchi.

Kocner aveva ottime ragioni per eliminare Kuciak. E che detestasse quel cronista ragazzino che lo tormentava con le sue inchieste non ne aveva fatto mistero. Lo aveva minacciato al telefono a settembre 2017: "Troverò prove su di te e sulla tua famiglia: tutti hanno uno scheletro nell'armadio". Jan lo aveva denunciato, ma la polizia aveva infilato la pratica in un cassetto, dove era rimasta.

Andrusko, l'uomo cerniera tra Alena Zsuszova e i killer, accusa Kocner durante il suo interrogatorio con la polizia slovacca. "Alena – spiega - non mi ha detto il motivo dell'omicidio, ma mi ha fatto il nome di chi lo ha ordinato E' Marian Kocner, ma ho paura a nominarlo perché temo per la mia vita".

Kocner è oggi il principale indiziato quale mandante dell'omicidio di Jan. Lo dice Andrusko nella sua confessione. Lo dice la logica. Lo dicono le solide ragioni per cui avrebbe avuto interesse ad eliminarlo. Lo dice, a "Repubblica", l'avvocato della famiglia Kusnirova, Roman Kvasnica: <Possiamo dire che Kocner sia ufficialmente sospettato, ma non formalmente accusato. Quindi c'è la presunzione d'innocenza, dobbiamo ancora considerarlo innocente>. Anche se lui, in carcere, già ci sta da qualche mese. Ma per evasione fiscale.

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E' evidente che la timidezza dell'indagine slovacca su Kocner sconti una generale paura che l'esplorazione complessiva del movente (e di lì dei possibili mandanti dell'omicidio), porti inevitabilmente nel Palazzo della politica, nel verminaio dei ricatti che hanno cementato e continuano a cementare classe politica, apparati dello Stato, imprenditoria corrotta e criminalità organizzata del Paese.

Questo spiega il perché dal giorno stesso dell'esecuzione, il lavoro di Kuciak non sia mai stato preso in considerazione nell'indagine come punto di partenza nella ricerca del movente dell'omicidio. Perché se così fosse stato il nome di Kocner si sarebbe illuminato prima che a parlarne fosse il "pentito" intermediario con i killer. E questo spiega anche come e perché sia stata lasciata cadere la pista – anche questa documentata dall'ultima inchiesta cui Jan stava lavorando - che portava ai rapporti tra l'ex Primo Ministro Roberto Fico e la 'Ndrangheta, nell'ambito delle truffe ai fondi europei per l'agricoltura e le energie rinnovabili.

<Andrebbe considerata la possibilità che l'omicidio sia stato ordinato da una sorta di cartello, che unisce più interessi>, dice a Repubblica Peter Bardy di Aktuality. In un'allusione voluta a un <patto di sistema> tra imprenditori, politica, criminalità organizzata. Che appunto gli inquirenti slovacchi avrebbero abbandonato. Al punto che il protocollo di collaborazione firmato un anno fa con la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria e la nostra Polizia è rimasto lettera morta. La giustificazione ufficiale, dichiarata durante una conferenza stampa è stata quantomeno anodina: <Non c'è alcuna pista italiana per l'omicidio e quindi non abbiamo bisogno dell'aiuto della magistratura italiana>. Un modo di procedere che a Reggio Calabria ha sollevato qualche perplessità, per dirla con un eufemismo. Perché – osservano - ignorare il lavoro di Kuciak ha significato precludersi la possibilità di illuminare un grumo di potere corrotto e infiltrato dalle famiglie di 'ndrangheta su cui sarebbe valsa la pena fare luce. E di cui vale la pena ricordare le coordinate.

Il calabrese Antonino Vadalà viene fermato assieme a tre familiari e interrogato dalle autorità slovacche il 10 marzo 2018 perché sospettato dell'omicidio, ma rilasciato quasi immediatamente.

Ci pensa dunque il nostro Paese ad arrestarlo per tutt'altro motivo. Deve infatti rispondere di narcotraffico internazionale di fronte al Tribunale di Venezia. Ed è lì, grazie ad un'indagine della Guardia di Finanza, che emergono elementi cruciali. Mentre infatti organizzava carichi di cocaina dall'America Latina al nord Italia, Vadalà gestiva un business che spaziava dall'agricoltura, all'allevamento alle energie rinnovabili in Slovacchia muovendosi abilmente in una zona grigia che gli garantiva contatti con uomini chiave: dai servizi segreti, alle dogane, arrivando fino alle più alte cariche dello Stato.

Come viene documentato da un'intercettazione captata nel 2012 da una Procura della Repubblica italiana nell'ambito di un'indagine sul narcotraffico, allora ritenuta non di interesse e riemersa solo dopo la morte di Kuciak. Vadalà, in quella telefonata, parla con l'allora premier Robert Fico. Quello che l'omicidio di Jan costringerà in poche settimane alle dimissioni.

Insomma, un'indagine monca, quella slovacca. Destinata probabilmente a rimanere tale. E ingombra di veleni. Come dimostrano le mosse di due alti funzionari degli apparati slovacchi dopo l'omicidio: il Capo della Polizia, Tibor Gaspar, e il capo dell'Agenzia Anticorruzione, Robert Krajmer.

Un nuovo testimone tra le file della polizia ammette infatti ora, a circa un anno dall'omicidio, che proprio Gašpar gli aveva ordinato di fare un controllo su Kuciak tra gli archivi della polizia, quando il giornalista era ancora in vita.

Mentre Krajmer sotto i riflettori ci finisce da solo. Accade infatti che la sera del 25 febbraio, quando i cadaveri di Jan e Martina sono stati appena trovati nella loro casa, sulla scena del crimine, contemporaneamente alla polizia locale, arrivi anche Robert Krajmer. Non il capo della scientifica, dunque, ma quello dell'anticorruzione. E accade anche che il giorno successivo, il 26 mattina, Krajmer su quella scena del crimine torni ancora. Questa volta ripreso dalle televisioni, mentre entra nella casa. Coperto da una toppa del Ministro dell'Interno peggiore del buco: <La squadra di Krajmer stava indagando le stesse vicende su cui lavorava Kuciak>, dice il Ministro. Peccato che quel 26 febbraio nessuno sapesse ancora su cosa Jan Kuciak stesse lavorando. Se non lui, che non poteva più raccontarlo, la sua inchiesta, non ancora pubblicata postuma dal suo giornale, e i colleghi che in quell'ultima inchiesta lo avevano accompagnato. Quelli di Investigace e Irpi.

tratto da www.repubblica.it (https://www.repubblica.it/esteri/2019/02/20/news/jan_kuciak_cronaca_di_un_omicidio-219582062/?ref=RHPPBT-BH-I0-C4-P11-S1.4-T1 )